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Racconti |
PAH-N-SETH |
PAH-N-SETH 2003 |
Mi
chiamo Pah-n-seth e sono un gatto. Be',
almeno in questa vita! E
già! Perché l’ultima volta ero un Gran Sacerdote di Amon. A
dire il vero non mi dispiace essere quel che sono e la mia vita non è tanto
diversa da quella di una volta… Mi
alzo, mi lavo, mangio e dormo. La
differenza tra l’essere un sacerdote ed un gatto sta nel fatto che, da gatto,
puoi dormire di più. Certo,
trovare un angolino fresco in casa è più difficile che trovarne uno in un
tempio, ma tutto sommato, non me la passo male. Quando
ero sacerdote dovevo alzarmi molto presto per lavare, vestire e dar da mangiare
alla statua del dio Amon. Adesso
mi alzo quando ne ho voglia, mi lavo… NON MI VESTO, mangio e dormo ancora, ed
il bello è che non devo neanche sforzarmi per procurarmi il cibo. Qui in casa
c’è chi si occupa di me: quattro umani che mi coccolano, mi sfamano e, a
malincuore, mi lavano, di tanto in tanto. Be', sì! Quando riescono a prendermi. Lo
so, sono un gatto fortunato. Non tutti se la passano come me, ma ammettiamolo:
la vita da gatto è una pacchia. Puoi
dormire fino a 16 ore al giorno… e nessuno ti dice nulla. Nessuno
ti dà uno scossone urlandoti: “Alzati fannullone!” Anzi,
rispettano il tuo sonnellino… il più delle volte. Insomma,
sono felice di questa mia nuova forma, per quanto non ho capito bene come ci sia
finito in questo grasso e peloso corpo di gatto. Oddio!
Io non mi vedo così grasso… peloso magari sì. Stando
ai quattro umani che con me dividono la casa, io sono una palla di pelo; un
gatto panzone… e chi più ne ha… Se
devo dire la verità, ero robusto anche da sacerdote. All’epoca
non era una cosa vergognosa avere la pancia. Del resto era impossibile restare magri con tutte le prelibatezze che arrivavano al tempio e con le cene abbondanti del palazzo reale; senza contare che in fin dei conti, non era la statua del dio a mangiare tre volte al giorno durante i riti, ma noi sacerdoti addetti al culto. Ahhhhg! Scusate!
Ho un po’ di sonno. Dicevo?…
A sì, che bei tempi! Che ricordi! Sento
ancora il sapore del montone arrosto, del pesce affumicato e… della birra. Ora
che ci penso, la birra non la bevo d’allora. Già!
Chissà perché, i miei coinquilini sono convinti che mi piaccia il latte. Certo,
non lo disdegno, ma vuoi mettere con una buona birra fresca? Ecco!
Forse questo è un lato negativo dell’essere un gatto. Ma
come gatto domestico ho sempre dei bocconcini prelibati solo per me, croccantini
a volontà e, quando riesco a fare la faccia più tenera che mi riesce, persino
carne, pesce e prosciutto. E’
vero che ho delle limitazioni: non posso salire sulle poltrone più belle, devo
fare i bisogni pubblicamente e, generalmente, non posso dire la mia sui luoghi
di vacanza. Però
sono felice di essere un gatto. Almeno
di essere questo gatto. Un
gatto fortunato, che ha una casa, degli umani che lo amano, che è riverito come
la dea Bastet dei miei tempi lontani; che, tutto sommato, può dormire
tranquillo. Là
fuori, lo so, non è così facile per un gatto d’oggi sopravvivere. Devi
lottare, e lottare, e lottare. Per
mangiare, per trovare un angolo tutto tuo, per dormire tranquillo. E
c’è il freddo dell’inverno e l’enorme caldo dell’estate. E c’è la
signora gentile e il monello di strada. La mano che ti accarezza e quella che ti
bastona. E
sì!!! Non è come ai vecchi tempi. Il sole picchiava forte, ma c’era sempre
un’ombra per un gatto di Tebe. E c’erano uomini che li veneravano, che li
accudivano, che davano loro una degna sepoltura e, i più fortunati, potevano
vivere in eterno con i loro padroni nelle principesche tombe della riva ovest. Io
vivrò a lungo in questo corpo, dicono che la mia vita media sia di 15 anni,
salute permettendo. Che se confrontata alla vita media dei miei tempi passati,
be', direi che vivrò più a lungo della volta scorsa. Ahhhhg!
Scusate ancora! Il
sonno mi sta cogliendo e questi discorsi sulla vita e la morte mi hanno
angosciato un po’. A
voi no? Ricordo
che era un’abitudine, da umano, porsi certi quesiti, ma ora il mio unico
quesito è: cosa troverò nella ciotola per pranzo? In
casa sono solo adesso, sono usciti tutti questa mattina, chi per un motivo, chi
per l’altro. A dire il vero non so perché e poco mi interessa; quel che conta
è che la persona che tornerà prima, sarà quella che mi darà da mangiare e,
sinceramente, come gatto, è l’unica cosa che conti per me. Del
resto non mi chiamano Pah-n-seth perché precedentemente ero un sacerdote; a
dire il vero credo che la pronuncia esatta sia Panzetta o qualcosa di simile. Ora,
però, scusatemi devo proprio dormire un po’. |
IL METODO 2003 |
Lei
si avvicinò e gli chiese il numero di telefono. Lui
glielo diede senza porsi domande. Lei
appuntò il numero, sorrise ed andò via senza voltarsi. Lui la guardò allontanarsi estasiato, senza chiedersi perché una donna così bella avesse chiesto proprio il numero di un uomo basso, grasso, leggermente pelato e sudaticcio. Gli sarebbe bastato guardarsi nella parete a specchio del locale per porsi la domanda. Ma non lo fece. Lei
era perfetta: fisico da modella, occhi da cerbiatto e labbra incantatrici. Così
perfetta da non essere umana. Lei
entrò in un altro locale, si guardò attorno e lo vide. Lui
era seduto al bancone del bar. Lo sguardo fisso al suo drink. Smilzo, con la
giacca sdrucita ed una alopecia incipiente. Con molta probabilità solo al
mondo, senza famiglia, senza amici, un fallito completo. Lei
si avvicinò e gli chiese il numero di telefono. Lui
glielo diede senza porsi domande. Lei
appuntò il numero, sorrise ed andò via senza voltarsi. Lei
visitò altri 27 locali quella notte; come ogni notte aveva appuntato una
trentina di numeri di telefono. Ogni
notte in 30 locali. Ogni
mese in una nuova città. Così
da sempre, da quando quel metodo aveva cominciato a funzionare. Lei
entrò nel locale, si guardò attorno e lo vide. Era
seduto ad un tavolino da solo, in un angolo poco illuminato, assorto nei suoi
pensieri. Alto,
massiccio, quasi un gorilla. Persino il suo volto ricordava quello di un
primate. Lei
si mosse nella sua direzione. Pochi passi e qualcuno la fermò afferrandola da
un braccio. “Ciao,
posso offrirti da bere?” Lei
lo guardò attentamente. Era un giovane sui 35, alto, bruno, con gli occhi di un
verde profondo ed un sorriso smagliante. Lei
lo scrutò attentamente cercando di leggergli l’anima. Gli
sorrise. “Dammi il tuo numero”, disse senza inflessione. “Perché
dovrei? Bevi prima qualcosa con me.” “Mi
spiace, non bevo.” Si voltò tornando sui suoi passi diretta verso l’uomo
massiccio dal volto di primate. Lei
si avvicinò e gli chiese il numero di telefono. Lui
glielo diede senza porsi domande. Lei
appuntò il numero, sorrise ed andò via senza voltarsi. Sulla
soglia il giovane 35enne l’attendeva. Le sorrise e le mostrò il suo biglietto
da visita: “Chiamami quando vuoi.” Lei
osservò il bigliettino, poi guardò dritto negli occhi del giovane. Sorrise,
“Troppo facile”, disse, ed uscì dal locale senza voltarsi. Il
sole albeggiava, la brina riluceva sui cofani delle auto. L’uomo
massiccio dal volto di primate era sul cavalcavia e guardava di sotto le auto
che passavano a tutta velocità. Una
dopo l’altra. Una
dopo l’altra. Una
dopo l’altra. Una… L’altra
ricevette in pieno il corpo massiccio dell’uomo, che schiacciò l’intera
cappotta uccidendo il guidatore. L’auto
sbandò, piroettò su se stessa, si schiantò contro il guard-rail cappottandosi. Le
auto che seguivano, sbandarono, inchiodarono, cappottarono ed urtarono tra loro.
Fumo,
fiamme, sirene… Il
notiziario mostrò le immagini dell’incidente e, poi, le foto di coloro che
non erano sopravvissuti, tra i quali il piccolo uomo grasso e lo smilzo. Che
l’anticamera dell’Aldilà fosse un locale con musica e barman, fu per il
giovane 35enne una vera sorpresa. Si guardò attorno e riconobbe l’uomo
massiccio dal volto di primate. Continuò
a guardasi attorno, per capire cosa stessero facendo lì. “Siete
qui per la chiamata”, rispose alla sua tacita domanda una figura efebica e
luminosa. “Chiamata?”
domandò confuso. “Certo!
Per essere smistati tra Inferno, Purgatorio e Paradiso.” “Credevo
che fosse Dio a giudicare personalmente le anime”, affermò spiazzato il
giovane 35enne. “Un
tempo era così. Ma negli ultimi decenni la popolazione è cresciuta a
dismisura, senza contare le stragi come quella che ti hanno condotto qui. Certo
non è un metodo che possiamo applicare a tutti, infatti in altri casi li
smistiamo in un altri locali e in altri modi. Ammetto anche che questo metodo ha
incrementato notevolmente gli inquilini dell’Inferno, ma è anche vero che
oggigiorno sono pochi a meritare Paradiso e Purgatorio”, concluse la figura
luminosa con un sorriso. “Ed
io? Dove andrò io con questo nuovo metodo?” “Oh, be'! Dipende... A chi hai dato il tuo numero di telefono?” |
L'ULTIMO GIORNO DI ATLANTIDE 2007 |
Nella notte dei tempi, quando ancora la terra non era calpestata da piedi umani.
Quando ancora il fuoco e la pioggia facevano paura. Quando ancora gli esseri non
camminavano del tutto eretti: lontano nell’Atlantico vi era un’isola. Bella,
florida, civilizzata.
In quel tempo regnava una grande regina: Lilith.
Era salita al trono molto giovane, dopo la prematura dipartita di suo padre, il
grande re Harunn.
Bella come il sole e fredda come la luna. Saggia come il tempo e imparziale come
il mare, Lilith dimorava sulle alture dell’isola, da dove poteva dominare con
lo sguardo ogni antro della sua amata Atlantide; ogni scoglio, ogni anfratto.
Ogni frastagliato scoglio e piatta rena.
Ritta, con lo sguardo perso verso il porto, dove le maestose navi con le vele al
vento attendevano silenti un cenno, un comando, Lilith meditava; i veggenti di
Atlantide avevano confermato che la profezia era imminente: Atlantide sarebbe
sprofondata negli abissi.
Bisognava abbandonare Atlantide. Bisognava scegliere una futura Patria.
Bisognava avventurarsi in un mondo primitivo e ostile. Bisognava far presto.
La rotta da seguire avrebbe segnato per sempre il destino degli atlantidi, ma
ancor più quello dell’umanità intera che avrebbe un giorno dominato la
Terra. Quale difficile scelta sulle spalle di una giovane regina. Quale atroce
destino per un popolo che 2000 anni prima aveva dovuto abbandonare il pianeta
natio. Quale stravagante fato segnava la vita di questo popolo errante.
Le lacrime scendevano lente sul volto della bella regina, mentre il sole sorgeva
alle sue spalle. Poggiò le mani sul davanzale della maestosa terrazza e lasciò
che la brezza di quella mattina le accarezzasse i capelli e allontanasse da sé
quel doloroso istante.
Passi felpati si avvicinarono a lei. Non si voltò. Lilith sapeva a chi
apparteneva quel piede così leggero e discreto.
“E’ ora” le disse.
“Lo so, mio fedele Adamius” rispose voltandosi lentamente verso di lui.
Il suo consigliere e amico d’infanzia era lì, triste e mesto quanto lei. La
guardò non senza un brivido. L’amava. L’aveva sempre amata, sin da quando,
da bambini, correvano insieme nei giardini del palazzo. Sin da quando le aveva
sorriso chiedendogli di starle accanto e consigliarla nella guida di Atlantide.
Lilith si avvicinò lenta ad Adamius respingendo le lacrime che ancora volevano
dire la loro.
“Perché a me?” domandò. “Perché la profezia deve avverarsi sotto il mio
regno? Perché devo essere io a vedere la fine del mio popolo?” E cadde tra le
braccia di lui divenendo per la prima volta una semplice donna.
“Oscuri sono i disegni del Divino. Non è dato a noi sapere tutto. Né ai
veggenti. Ma voi, mia reggina, sapete quanto me, che un giorno Atlantide
risorgerà dalle acque e, quel giorno, il nostro popolo potrà tornare in
Patria.”
Lei sollevò il capo a incrociare lo sguardo di lui. Si discostò con regale
grazia, chinò il capo per riprendere il controllo.
“Andiamo!” disse senza esitazione, precedendo il suo consigliere.
Sulla piana dell’imbarcadero, tutti gli abitanti di Atlantide attendevano le
sue parole di conforto e la decisione: la rotta che le navi avrebbero seguito.
Lilith osservò il suo popolo, tutto lì ai suoi piedi. Le navi maestose sullo
sfondo con il sole che indorava le loro vele. E la regina parlò:
“Popolo di Atlantide. Miei devoti sudditi. Questo è un triste giorno per
tutti noi. Già i nostri padri quasi 2000 anni fa, hanno dovuto abbandonare una
Patria. Ora, quel triste episodio segna la nostra vita. Ma a differenza di
allora, noi sappiamo che questa nostra isola è destinata a risorgere. E’ per
questo che non dobbiamo cercare una nuova terra. Una nuova Atlantide.”
Un lieve brusio si insinuò tra la folla, di stupore e di curiosità, per quelle
sibilline parole. Adamius sollevò appena la mano destra e il silenzio ricadde
sulla piana dell’imbarcadero.
“Salite sulle navi” continuò la regina. “Portate con voi la nostra
cultura, la nostra civiltà. I nostri ricordi comuni. Che ogni capitano scelga
una rotta. Che in ogni luogo ove approdiate, lì portiate saggezza e civiltà. E
fate in modo che i vostri figli. E figli dei vostri figli, e figli di essi,
ricordino le proprie origini e tornino in Patria, quando questa risorgerà.”
Un mormorio si levò ovunque. Un mormorio di paura e di inquietudine. Un
mormorio di disappunto.
“Mia regina, non possiamo separarci!” obiettò uno.
“Come possiamo scegliere una rotta senza sapere cosa ci attende?” gridò un
altro.
“Cosa ne sarà di voi?” si informò una donna dalle ultime file.
“E cosa sarà di noi?” domandò una al suo fianco.
Lilith abbassò il capo e voltò le spalle al suo popolo: “Così è deciso,
obbedite e salpate. Non c’è più molto tempo.”
Con il cuore stretto in petto e lottando contro quelle lacrime che ancora
volevano renderla donna e non regina, Lilith osservava le navi lasciare il
porto. Il sole era a picco sulla città; su un’isola vuota e silenziosa,
pronta alla sua inevitabile fine e conscia della sua futura rinascita.
“Il pranzo è pronto, mia regina” disse Adamius alle sue spalle.
Lei si voltò stupita. Non lo aveva sentito arrivare.
“Sei rimasto qui?”
“Come avrei potuto lasciarvi, o mia regina!”
“La capsula è solo per uno” disse con tristezza nella voce.
“Lo so.” E la guardò sorridendole. “Ma non potevo lasciarvi sola in un
momento così drammatico. Io vi amo.”
“Sono una regina, Adamius.”
“Non sono qui per chiedervi amore, ma per darlo io a voi.” Si guardarono per una
lunga frazione di tempo. “Andiamo, il pranzo è pronto.”
“Ricordi? Abbiamo spesso giocato in questo giardino.”
“Sì, mia regina, lo ricordo. E come potrei averlo dimenticato?”
“Ma ora, questo andrà perduto. Io, tu, il giardino, non saremo neanche più
un ricordo.”
“Voi ricorderete, mia regina. Voi sarete ancora qui, quando questo giardino
rifiorirà. E io vi prometto che vi raggiungerò.”
“E come?”
“Andrò nel Tempio e lì...”
“Tu conosci gli antichi riti?”
“Ne ho letto, sì. Credo di poter fermare la morte.”
“Mi ami fino a questo punto?”
Adamius non rispose, ma si avvicinò a lei come una brezza leggera e le sfiorò
i lunghi capelli dorati. Lei non esitò più e lasciò che la donna smettesse i
panni di regina.
Lilith lasciò il letto diretta alla grande terrazza. Il vento s’era alzato
implacabile e il mare era scosso da violente sferzate che alzavano le onde a più
di tre metri. Il sole era ormai al tramonto e colorava di rosso e viola
l’orizzonte.
“E’ ora” disse Adamius.
“Sì. E’ ora” annuì lei di rimando, e seguì il suo consigliere nei
sotterranei del palazzo.
Quando giunsero alla capsula, Lilith esitò. Ma lo sguardo fermo di lui, la
convinse a lasciarsi chiudere al suo interno.
Avrebbe potuto sigillare da sé il suo sarcofago dalla copertura trasparente, ma
fu Adamius a compiere la sigillatura. Poi si chinò sul coperchio per guardarla
un’ultima volta. Lei pianse e allungò una mano verso il volto di lui. Adamius
schioccò un bacio sulla fredda lastra e scappò via, per fare ciò che andava
fatto, prima che fosse troppo tardi. Prima che Atlantide sprofondasse. Prima che
il coraggio venisse meno.
Le onde sempre più alte si abbatterono inesorabili sull’isola. Le acque del
mare si insinuarono in ogni dove: le vie, le cantine, le case, i templi, i
palazzi e le piazze, i giardini; ogni cosa era inondata da acque scure e
fredde.
Adamius era seduto sull’altare con le gambe incrociate e un rotolo di scizzu
su di esse. Cantava una nenia, una liturgia antica e sconosciuta. Gli occhi
chiusi e le lacrime sul viso, mentre sotto di lui le acque mulinavano alzandosi
sempre più.
Presto un brivido di freddo lo scosse facendogli perdere la concentrazione e
vide le sue gambe immerse nelle gelide acque scure di un mare implacabile.
Allungò la mano per afferrare il rotolo e cercando in sé ancora il coraggio di
uomo, riprese la litania, mentre ormai l’acqua era alla sua gola. E mentre le
lacrime scorrevano più forti, lui si lasciò andare. Lasciò che il mare lo
inghiottisse, ma sul volto v’era un sorriso.
Lilith si chiedeva quanto tempo sarebbe passato ancora, prima che l’acqua
invadesse il vano e sommergesse il suo sarcofago. Si chiese se il suo amato
Adamius era già morto e se l’isola era ancora visibile dal cielo. E mentre
quei pensieri le affollavano la mente, la porta si aprì violentemente e
l’acqua invase tutta la stanza turbinando intorno a lei e sul coperchio della
sua dimora. Poi tutto fu buio.
Le acque sommersero tutta l’isola. E una tromba d’acqua risucchiò tutto
nelle profondità lasciando in superficie un vortice scuro e profondo in una
cupa notte, senza luna e senza stelle. |
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